Una delle forme tradizionali e più profonde di connessione dell’essere umano con l’universo è attraverso il Laya Yoga. La parola laya significa “fusione”, “riassorbimento”, “dissoluzione”, e quale forma di yoga indica un insieme di modalità e pratiche volte a riassorbire tutte quelle energie e forze che normalmente vengono dissipate durante il vivere quotidiano. Con la meditazione, queste energie vengono canalizzate, portando al risveglio interiore.

Laya essenzialmente significa dissolvere i condizionamenti karmici, fondendosi nella realtà trascendente. Ma si può utilizzare anche per indicare la concentrazione profonda e lo sforzo coscientemente rivolto per annullare l’ego, elevando cosi il praticante nel quarto stato di coscienza, turya.

Il laya yoga include tecniche di meditazione che portano l’energia pranica a muoversi in determinate direzioni, risvegliando l’energia fondamentale Kundalini. Cosi, anziché cercare di controllare la mente, le energie vengono canalizzate nella Kundalini. Questo richiede una preparazione preliminare, attraverso gli asana, la pratica del pranayama e uno sforzo cosciente a dirigere le energie risvegliate lungo la colonna, affinché poi queste si fondano nel centro coronario (sahasrara). In questo modo si giungerà all’eliminazione delle fluttuazioni della mente, ossia proprio nello stato finale di yoga indicato negli Yoga Sutra di Patanjali.

La pratica del Laya yoga purifica e sana la mente e il corpo. Eleva la coscienza del praticante. Poiché la maggioranza delle persone vive solamente su tre livelli di coscienza – veglia, sogno, sonno profondo – il laya yoga consente di elevare il livello di coscienza, insegnando allo yogi come localizzare i diversi centri energetici e meditare su di essi, trasformando la sua coscienza.

La modalità più semplice e diretta di Laya Yoga è attraverso la meditazione sul suono generato dall’emissione mentale di un mantra. In questo modo si ottiene l’assorbimento della mente nel suono. L’obiettivo di questa pratica è espandere la coscienza individuale, concentrandosi sull’ascolto del suono interno, sottile. La mente diverrà stabile, e sarà assorbita nel suono su cui si focalizza. Nello spazio, il suono è prodotto dal movimento delle onde sonore nell’aria. Così, anche, nel corpo, ci sono correnti che scorrono e producono suono durante la pratica del pranayama.

Per eseguire questa pratica, ci si siede in siddhasana – o in un’altra postura di meditazione che ci permetta di rimanere immobili a lungo tempo e con la colonna dirittae si concentra l’attenzione nello spazio fra le sopracciglia. si girano gli occhi verso l’alto, lasciando le palpebre chiuse. Gli occhi, le orecchie, il naso e la bocca devono essere chiusi. Con la mente calma e ci si mette in ascolto per sentire un suono nell’orecchio destro, e, nel caso, si sentirà un suono chiaro. All’inizio i suoni saranno molto forti e diversi, ma con una pratica costante diventeranno sempre più sottili. Inizialmente può capitare di sentire suoni che sembrano martellanti, o ad impulsi, come il suono di un timpano (lo strumento musicale). Dopo un certo tempo, nella fase intermedia, i suoni assomiglieranno a quelli che si sentono nelle conchiglie, o a delle campane. Infine, dopo molta pratica, i suoni assomiglieranno a ticchettii, al suono di un flauto, o al ronzio delle api. Tutti questi suoni sono prodotti all’interno, e non possono essere sentiti da nessun altro. Si dovrebbe praticare stando attenti sia ai suoni forti che a quelli sottili, alternare e spostare l’attenzione da uno all’altro, in modo tale da non far distrarre la mente. Man mano si rimarrà focalizzati solamente sul suono prodotto dall’emissione mentale del mantra (che è stato ricevuto dall’aspirante con un’iniziazione spirituale – diksha).

Quando la mente dello studente è impegnata attentamente nell’ascolto di questi suoni, ne rimane affascinata e supera ogni distrazione. Come conseguenza di questa pratica, la mente controlla la sua attività, altrimenti diretta verso l’esterno, e diventa calma, non desiderosa di cose che gratificano i sensi. La mente ed il respiro risultano raffinati, e l’attenzione si focalizza all’interno. Allora lo yogi dimentica tutti gli oggetti esterni e perde la coscienza di sé, la mente è assorbita nella beatitudine spirituale. L’assorbimento che si crea quando la mente entra nel suono (nada) sprigiona dei poteri spirituali e una sorta di estasi, quindi ci si dimentica di tutta l’esistenza materiale.

Per chi desidera praticare il laya yoga pur non avendo ricevuto un mantra per via d’iniziazione, potrà comunque allenare la mente e ottenere questo stato di unione esercitandosi nell’ascolto del suono di Anahata nel cuore, con mente calma e concentrata. Quando la mente si focalizza sul suono, diventa calma. Quando la mente è assorbita nel suono, l’attività mentale si sospende. L’aspirante che ha compiuto tutti i passi si addentra nel suono di anahata e raggiunge, con questo metodo del laya yoga, lo stato di samadhi.

Questi suoni interni possono essere sentiti solo da chi ha i nadi liberi da impurità, e che pratica correttamente il pranayama. Il suono di anahata viene da sushumna e, come per altri suoni, non può essere sentito dall’aspirante fino a quando i suoi nadi non saranno liberi da tutte le impurità. Perciò la pratica di concentrazione e di assorbimento nel nada (suono) è possibile solo dopo una considerevole preparazione.

Appena si concentra l’attenzione sugli occhi, si produce uno speciale potere di visualizzazione, che dirige la consapevolezza verso le orecchie, consentendo di individuare suoni particolari. Dirigendo tutta la forza dell’attenzione su questi sensi, si sviluppano i poteri più profondi. Dirigendo i pensieri su uno dei sensi in particolare, si risveglia coscientemente la consapevolezza dei poteri legati a quel senso. La concentrazione sugli organi del corpo coinvolti in qualsiasi pratica, aumenta il loro potere e la loro sensibilità, e li intensifica e rinforza.

La concentrazione appare in cinque stati progressivi della mente: analisi, riflessione, beatitudine spirituale, estasi e meditazione. Con il primo stato si acquisisce la consapevolezza sulla natura dell’oggetto. Il secondo, è quello della riflessione pura; viene superato lo stato, inferiore, dell’analisi. Col terzo stato, il potere della riflessione conduce ad uno stato di coscienza pieno di beatitudine, che, proseguendo, convergerà nella pura estasi del quarto stato. con il quinto stato, si perde l’attenzione a tutte le sensazioni, e l’attenzione verso l’esterno lascia spazio ad uno stato di completa meditazione. Nel samadhi, non c’è nulla da vedere, né da sentire, nessuna consapevolezza, né fisica, né mentale; l’esperienza è di pura esistenza, e totale assorbimento nell’assoluto.

(tratto da www.himalaya-tirtha.org)